Iniziata il 23 ottobre, la Rivoluzione ungherese del 1956 fu un’insurrezione spontanea e popolare contro il governo della Repubblica Popolare d’Ungheria e le sue politiche filo-sovietiche. In questi giorni di sessantotto anni fa scendevano nelle piazze studenti, lavoratori e intellettuali che chiedevano riforme politiche ed economiche.
Facendo un piccolo passo indietro, dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’Ungheria cadde sotto l’influenza sovietica e, nel 1949, fu instaurato un governo comunista sotto la guida di Mátyás Rákosi. Le politiche oppressive, la colletivizzazione forzata e la repressione delle libertà civili portarono a un crescente malcontento tra la popolazione.
Il 23 ottobre 1956, una manifestazione studentesca a Budapest, inizialmente pacifica, si trasformò in un movimento di massa quando le richieste di riforme politiche incontrarono il consenso della popolazione. Le richieste includevano il ritiro delle truppe sovietiche, libere elezioni e la libertà di stampa. La statua di Stalin fu abbattuta, simbolizzando il rifiuto del controllo sovietico.
Inizialmente, le autorità ungheresi furono colte di sorpresa e il governo di Imre Nagy, un riformista comunista, assunse il potere promettendo cambiamenti. Nagy annunciò l’intenzione di ritirare l’Ungheria dal Patto di Varsavia e di instaurare un sistema multipartitico. Tuttavia, il 4 novembre 1956, l’Unione Sovietica intervenne militarmente per reprimere la rivolta. Gli storici attribuiscono a diverse motivazioni l’intervento sovietico: la divisione in blocchi, la Guerra Fredda, la crisi di Suez, il ricordo del sostegno ungherese a Hitler, il ruolo delle forze reazionarie e delle potenze occidentali, e i timori di delegittimazione della leadership di Nikita Krusciov. L’intervento militare sovietico fu brutale e portò alla morte di migliaia di ungheresi. Il governo di Nagy fu rovesciato e sostituito da János Kádár, che instaurò un regime più conforme alle direttive di Mosca. Imre Nagy fu arrestato, processato e giustiziato il 16 giugno del 1958.
Durante quelle giornate drammatiche, il Partito Comunista Italiano giustificò l’intervento anche con non poche tensioni. L’VIII Congresso, tenutosi mesi dopo, sottolineò il carattere democratico della via italiana al socialismo e abbandonò l’idea di uno Stato-guida. Pietro Ingrao, storico dirigente del PCI definì come “indimenticabile” il 1956, riconoscendo l’errore del partito a non schierarsi contro l’intervento dei carri armati sovietici. La crisi del movimento comunista produsse esperienze di rifondazione e rilancio del carattere democratico del progetto socialista e comunista in tutto il mondo. La tragedia ungherese e la denuncia dei crimini di Stalin non portarono all’abbandono del socialismo, ma a sviluppi creativi del marxismo e alla ricerca di nuove vie. In Italia negli anni avvenire venne recuperata l’eredità del pensiero di Gramsci.